Streaming musicale, a che punto siamo? Analisi di tutti i servizi presenti e futuri

È un periodo di grande cambiamento nel mondo della musica, in particolare per la sua fruizione. Ad onor del vero non si tratta di una transizione iniziata da poco, dal momento che le sue origini risalgono alla fine degli anni ’90 coi primi lettori MP3 e l’avvento del Peer-to-Peer, con Napster come capostipite. iPod e iTunes hanno poi contribuito a lanciare il mercato dei download legali ma, con l’avvento di Spotify e simili, sta prevalendo più il modello dello streaming. Economico, con alcuni servizi addirittura gratuiti (ascoltando brevi spot pubblicitari) e rapido: è una modalità meno impegnativa per l’utente, dato che non si ha la necessità di acquistare i singoli brani o album, ed ha anche la possibilità di riproduzione offline in assenza di connessione, rimuovendo così alla radice il potenziale difetto di questa categoria. Visti i recenti movimenti, ne approfittiamo per un excursus su ciò che offre, o sta per offrire, il mercato.

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Per molte aziende, il nemico da battere non è tra i soliti nomi. Si tratta dell’indipendente Spotify, nato in Svezia nel 2008 e presente in Italia dal 2013, che continua ad avere solidi ritmi di crescita avendo da poco superato quota 60 milioni di utenti, paganti e non. Il suo modello di business è semplice, prevedendo due piani principali: Free, finanziato dalla pubblicità, e Premium, a 9,99 € mese con ascolto illimitato, opzione ad alta qualità (320 kbps) e modalità offline. Presente inoltre l’opzione Family, che consente di collegare ad un account Premium principale altri della stessa famiglia, con uno sconto del 50% su ogni abbonamento aggiuntivo. Non mancano promozioni locali, come quella con Vodafone che fa scendere il prezzo a 6,99 € mensili. Per tutti i gusti, per tutte le piattaforme (proprio qualche giorno fa è arrivato pure su PlayStation 3 e 4 grazie a un accordo con Sony) e soprattutto per tutte le tasche.

Altri concorrenti interessanti sono certamente Deezer e Rdio. Il primo è di origine francese e le modalità di fruizione del servizio sono molto simili a quelle di Spotify, sia per caratteristiche che per prezzi (potremmo anzi definirle analoghe). A livello di collaborazioni promozionali in Italia si segnala quella con Fastweb che prevede per gli abbonati Superjet 18 mesi di Deezer Premium+. Rispetto alla controparte nordica non dispone di un’opzione familiare ma presenta un ulteriore step qualitativo con Elite, in collaborazione con Sonos, azienda specializzata in dispositivi audio, che per 14,99 € al mese propone un bitrate massimo di 1.411 kbps. Anche Rdio, sviluppato negli USA, presenta un piano free e uno in abbonamento, con possibilità di sconti famiglia. Da segnalare inoltre anche l’attuale incarnazione legale di Napster, che nel Belpaese ha l’appoggio di Wind, e TIMMusic strettamente legato a Telecom Italia/TIM.

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E le tre canoniche grandi? Due sono già nell’arena da diverso tempo. Google ha una proposta doppia, con Play Music Unlimited e YouTube Music Key, separati a livello di brand ma tecnicamente dipendenti dal momento che al costo complessivo di 9,99 € al mese ognuno prevede l’accesso all’altro. O meglio prevederà, dato che la parte YouTube per i video è ancora in fase di test. Microsoft risponde con Xbox Music, che già integra i video musicali, seppur in quantità limitata. Per quanto riguarda Apple, fervono ancora i lavori sul passaggio di Beats Music nell’ecosistema iTunes, forte dell’esperienza sia del duo Jimmy Iovine/Dr Dre, arrivato con l’acquisizione di Beats, sia di artisti di calibro internazionale come Trent Reznor dei Nine Inch Nails. Stando alle indiscrezioni più recenti se ne saprà di più a giugno in occasione della WWDC, con tanta curiosità anche per il probabile mantenimento dell’edizione Android.

Il mercato dello streaming sta funzionando, anche se più per i pesci piccoli che per i grossi, contrariamente alle normali tendenze. Si può però notare come le differenze non siano molte, dato che le caratteristiche di base più o meno sono standard: milioni di brani a disposizione anche offline, possibilità di caricare anche la propria libreria musicale, organizzazione in playlist sia personali sia già preparate, accesso su più dispositivi. Non è un male, anzi da un certo punto di vista semplifica la scelta all’utente, libero di concentrarsi sui dettagli. Ad esempio, chi utilizza Windows Phone farà bene a tenersi lontano da Play Music (dato che Google non ha app su questa piattaforma), mentre chi ha un prodotto Sonos valuterà maggiormente Deezer per la disponibilità di una qualità esclusiva. C’è abbondanza, e speriamo duri.

Questo “speriamo” non è a caso, dato che ci sono pareri meno lusinghieri dall’altra parte della barricata, ovvero da chi la musica la produce. Negli ultimi anni più volte artisti famosi si sono espressi in modo netto tanto sulle royalties garantite dallo streaming musicale, a loro detta insufficienti, quanto sui piani base gratuiti di alcuni servizi, accusati di non ricompensare adeguatamente il lavoro profuso nella creazione dei brani. Per tali motivi a fine 2014 è andato al centro dell’attenzione il caso di Taylor Swift, con la rimozione tutta la sua discografia da Spotify e l’assenza del nuovo album “1989”. Un sentimento pochi giorni fa reiterato dalle stesse case discografiche, in primis Universal, che ha chiesto maggiore focus sui piani a pagamento. C’è chi ha preferito accontentare tali richieste, come Microsoft, nel suo caso anche in virtù di uno scarso ritorno economico della versione free di Xbox Music. Le trattative sono serrate persino per un eventuale abbassamento dei prezzi: nei vari rumors sull’evoluzione di Beats Music, sono emersi i tentativi di Apple per concordare un piano commercialmente più aggressivo rispetto ai concorrenti, ma la poca propensione dei discografici a trattare nonché le fresche indiscrezioni su indagini dell’antitrust europea per abuso di posizione dominante stanno per costringerla ad abbandonare l’idea mantenendosi allineata al resto.

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Nel frattempo, c’è chi proprio preferisce una via differente. È il caso di Jay Z, che ha investito di recente 56 milioni di Dollari sul rilancio di un altro servizio svedese di streaming, fino ad oggi ben meno noto di Spotify. Tidal è disponibile anche in Italia e si contraddistingue per la ricerca dell’alta fedeltà. Si punta principalmente infatti sul piano HiFi da 19,99 € al mese, che prevede l’utilizzo del codec lossless FLAC a 1.411 kbps. Per chi si accontenta è presente una tariffa base, Premium, a 9,99 €, che si ferma a 320 kbps. Non è però questo il suo vero punto di forza, probabilmente, dal momento che, come abbiamo già visto più sopra, pure Deezer offre un analogo prodotto, peraltro a minor prezzo, sebbene per ora condizionato dalla necessità di abbinare alla propria utenza anche a un dispositivo Sonos. Ciò che Tidal ha è il supporto degli stessi cantanti: tra i tanti si segnalano soprattutto Alicia Keys, Beyoncé (se non ci si aiuta in famiglia…), Coldplay, Daft Punk, Kanye West, Madonna, Nicki Minaj, Rihanna e… Taylor Swift. L’impegno da parte di tutti i nomi coinvolti è rendere Tidal la scelta migliore per i propri fan, col caricamento di video e contenuti esclusivi.

Una piattaforma definita come “fatta dagli artisti per gli artisti” e, almeno dalle premesse, non stentiamo a crederci. Grande ottimismo che va di pari passo con lo scetticismo, dei competitor, della stampa e anche degli stessi utenti. Prima di giungere a rapide conclusioni, però, è meglio lasciarli fare e capire fino in fondo le intenzioni. Chissà che non possa rivelarsi tra qualche anno un nuovo business miliardario (chiedere a Dre per maggiori informazioni). Nel frattempo, che la sfida prosegua.

Giovanni "il Razziatore"

Deputy - Ho a che fare con i computer da quando avevo 7 anni. Uso quotidianamente OS X dal 2011, ma non ho abbandonato Windows. Su mobile Android come principale e iOS su iPad. Scrivo su quasi tutto ciò che riguarda la tecnologia.

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