Lo strano rapporto degli italiani con le parole della tecnologia

Su una cosa non ci sono dubbi, l’italiano medio è una frana con le lingue straniere. Potremmo dire di essere troppo affezionati alla nostra, ma in realtà non è così vero visto che bistrattiamo anche quella. Io ho studiato francese per 5 anni a scuola, un tempo che dovrebbe essere più che sufficiente ad apprendere ben oltre la basi della lingua, eppure mi ricordo a stento i numeri, due parole e qualche frase standard. No, non sono tonto, semplicemente nell’ora di francese giocavo a carte o andavo in giro per i corridoi a bighellonare. Ah, bei tempi quelli… Non seguendo il mio cattivo esempio e scegliendo una lingua più utile nel mondo contemporaneo (direi l’inglese), nello stesso periodo si possono raggiungere ottimi risultati. Non è il mio caso, perché continuo ad essere il perfetto italiano medio di cui sopra – quello che è una frana con le lingue straniere –, ma sono particolarmente incuriosito dal modo in cui leggiamo e scriviamo le parole inglesi, specie quelle legate alla tecnologia. Vi faccio un esempio che trovo piuttosto indicativo ed al tempo stesso divertente. Chiamando il numero verde di Apple alcuni anni fa, la voce registrata ci accoglieva così: “Benvenuto in Apple”. Veniva ovviamente usata la pronuncia corretta, dove la “A” suonava in modo similissimo alla nostra. Componendo oggi lo stesso numero, la classica voce femminile ci offre un saluto altrettando cordiale, ma il nome dell’azienda viene pronunciato “Eppol”, alla maniera degli italiani. In conclusione l’azienda di Cupertino, che non è certo l’ultima arrivata, ha preso atto della nostra difficoltà di comprensione ed adattamento ed ha deciso di modificare la pronuncia del proprio nome per venirci incontro. Cambiare nome in base al paese di riferimento è una prassi molto diffusa per ragioni di marketing, ma arrivare a modificare la pronuncia adattandosi ad una errata sia per l’inglese che per l’italiano è davvero curioso.

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Il dilemma relativo alla pronuncia dei termini provenienti da lingue diverse dalla nostra è sempre esistito, ma è ovviamente più pervasivo oggi, per via della rapidità con cui comunichiamo da una parte all’altra del globo. Inoltre l’inglese è stato universalmente scelto come lingua della tecnologia – così come greco e latino lo sono stati per la medicina – e la tecnologia è ormai parte integrante dalla nostra vita. I nuovi termini ci vengono consegnati direttamente dall’inglese e vengono mantenuti inalterati nelle altre lingue, sia per scelta che per la rapidità di diffusione. Questo cambio di rotta è evidente anche nella cultura popolare, infatti fino a qualche anno fa i titoli dei film, dei libri e perfino dei fumetti stranieri venivano sempre tradotti, mentre oggi è abitudine comune mantere quelli originali.

Il doppiaggio dei lungometraggi è un altro chiaro indice della confusione che ha sempre regnato in Italia circa la pronuncia delle parole straniere. Pensate ad esempio ai film di spionaggio degli anni 60, dove le sigle delle varie agenzie di intelligence venivano alternativamente lette con pronuncie diverse, anche nella stessa pellicola. Andando a memoria, si è sempre detto “ef-bi-ai”, ma solo di recente alcuni usano “si-ai-ei” in luogo del più diffuso “CIA”. Per non parlare del KGB, che anche oggi viene difficilmente pronunciato in russo (dovrebbe essere qualcosa tipo “ke-ghe-bé”). Non sto dicendo cosa sia giusto e cosa sbagliato, anche perché non ho le conoscenze sufficienti per farlo e probabilmente avrò anche sbagliato a trascrivere le varie pronuncie nel paragrafo precedente, ma è certo che ci sia una completa incoerenza in merito al trattamento dei termini stranieri in Italia. E non è un problema di oggi. Mi piacerebbe molto leggere un approfondimento dell’autorevole Accademia delle Crusca in merito, nel cui sito ho spesso trovato delle importanti chiarificazioni.

Ad esempio parlando o scrivendo in italiano, molte persone mantengono la forma plurale dei termini inglesi, ma la maggior parte di questi, specie quelli assimilati da tempo, dovrebbero rimanere sempre al singolare perché i nostri articoli sono sufficienti alla declinazione. Nessuno dice o scrive iPhones in Italia, ma è frequente leggere developers o iDevices. Anche su questo argomento, però, pare stiano emergendo delle divergenze di opinione: facendo una rapida ricerca in rete ho trovato tre fonti abbastanza autorevoli che propongono un approccio leggermente differente (A, B, C).

Quando scrivo un articolo per SaggiaMente mi capita molto spesso di dover usare sigle e parole inglesi, termini legati al mondo tecnologico che sono ormai di uso comune. Con una penna in mano (o una tastiera) non ci sono molti dubbi, ma quando si parla e si mischiano diverse lingue è lecito chiedersi quale sia la prouncia più corretta. Una cosa sicura è che se si decide di leggere un termine all’inglese, lo si deve fare interamente. Il caso tipico di questo errore lo potete sentire in tutti i negozi di elettronica, dove la stragrande maggioranza dei commessi dice “acca-di-emme-ai”, mischiando italiano ed inglese. Va benissimo HDMI (che io preferisco), ma se proprio vogliamo fare i sofisticati allora dobbiamo leggere tutte le lettere in inglese (qualcosa tipo “eich-di-em-ai”). Sempre rimanendo in tema di elettronica e restringendo il campo in casa Apple, non è chiaro come comportarsi con le sigle dei sistemi operativi. La maggior parte di noi dice – e ritiene corretto – “o-es-ten” per OS X e “ai-o-es” per iOS, ma il numero di versione viene comunemente pronunciato all’italiana. La cosa ha una logica, perché le sigle derivano da termini inglesi mentre i numeri hanno una naturale traduzione nella nostra lingua, ma siamo sicuri che sia la cosa giusta da fare? Altra questione che l’anno scorso mi ha creato un grattacapo è stata la pronuncia di iPhone 6 Plus. Alla fine mi sono detto che siccome Plus deriva dal latino non aveva senso leggerlo all’inglese, e continuo a fare così anche oggi, tuttavia più di una persona mi ha fatto notare che il prodotto è americano e quindi potrebbe essere più corretto pronunciarlo come l’azienda lo ha pensato. Ma a quel punto perché non leggere anche “six”?

Dai punti di domanda si sarà capito che non ho risposte, ma non smetto di interrogarmi. Tuttavia la lingua si evolve in modo del tutto autonomo ed imprevedibile, per cui è facile che le regole, quelle giuste, siano comunque ignorate fino ad essere completamente dimenticate. Da osservatore interessato, però, ho notato che l’approccio degli italiani verso le lingue straniere sta cambiando. Ne parlavo prima riguardo ai titoli dei film, sempre più spesso mantenuti nella forma originale, ma possiamo notare questa evoluzione anche nei nomi dei marchi in base al diverso periodo storico in cui si sono diffusi nel nostro paese. Ad esempio tutti leggiamo Samsung in italiano visto che lo conosciamo da prima che si fosse sviluppata questa maggiore sensibilità rispetto le lingue straniere, mentre con i marchi più recenti ci siamo interrogati circa la pronuncia ed è frequente sentir dire anche il nome corretto della cinese Xiaomi, ovvero “sciào-mi”.

Maurizio Natali

Titolare e caporedattore di SaggiaMente, è "in rete" da quando ancora non c'era, con un BBS nell'era dei dinosauri informatici. Nel 2009 ha creato questo sito nel tempo libero, ma ora richiede più tempo di quanto ne abbia da offrire. Profondo sostenitore delle giornate di 36 ore, influencer di sé stesso e guru nella pausa pranzo, da anni si abbronza solo con la luce del monitor. Fotografo e videografo per lavoro e passione.

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