Sono convinto che oggi in Microsoft provino una reazione mista. Da una parte l’allegria, perché la sua più grande concorrente rischia una pesante sanzione. Dall’altra la comprensione, perché ci sono già passati e hanno ricordi finanziariamente dolorosi. Nella scorsa decade, nel mirino vi erano Windows e Internet Explorer. In questa, ritroviamo come oggetto del contendere ancora un sistema operativo. Ad agire è sempre l’antitrust europea. Cambia invece il colosso indagato, Google. L’azienda di Mountain View dovrà difendere Android dalle accuse di posizione dominante fresche di formulazione.
Già nel 2015 Google aveva dovuto far fronte a una procedura d’infrazione, in quel caso relativa ai risultati di ricerca per lo shopping online (la vicenda non si è ancora conclusa). Proprio da lì hanno poi germinato le successive inchieste sul robottino verde, portando all’annuncio odierno. L’antitrust guidata da Margrethe Vestager contesta a Big G fatti non molto dissimili da quelli al tempo imputati a Microsoft. Il primo è relativo alla costituzione di accordi vincolanti con produttori di dispositivi e operatori di telefonia mobile che prevedano non solo la preinstallazione di Android, ma anche quella del browser Chrome e dell’app Ricerca per la concessione in licenza di altri software sviluppati dalla società, Play Store in primis. Il successivo riguarda il divieto di creare o utilizzare sistemi potenzialmente concorrenti usando il codice a disposizione libera della base AOSP (Android Open Source Project). Infine, è stata configurata la presenza di uno schema di incentivi economici per rendere predefinita ed esclusiva la presenza del motore di ricerca Google.
Nel dettaglio, l’antitrust sostiene che, oltre a detenere nell’Unione il 90% di quota di mercato tra i sistemi operativi mobile, agendo in tal modo Google ha consolidato sia la sua posizione primaria nel settore browser sia in quello delle ricerche su internet. L’impossibilità pratica di effettuare i fork di Android frena qualsiasi altra azienda che intenda dare priorità a servizi terzi piuttosto che a quelli Google, pena rinunciare interamente a qualsiasi accordo di licenza. Il caso più celebre è quello di Amazon, il cui Fire OS è basato sul codice AOSP ma di standard non prevede nessuna app dell’azienda guidata da Sundar Pichai, proprio perché il sistema derivato risulta una modifica non autorizzata.
Da Bruxelles sono state già notificate le accuse e l’apertura della nuova procedura d’infrazione; starà a Google ora fornire risposte convincenti che possano convincere la Vestager a cambiare idea. Un primo commento ufficiale è già arrivato, sostenendo come Android sia tutt’altro che vincolante, ma offra una piattaforma aperta a chiunque e su cui proporre qualsiasi app o servizio alternativo si desideri. I contratti in essere forniscono non solo una via per monetizzare tramite la concessione in licenza dei software, essendo il sistema base gratuito, ma anche la garanzia di compatibilità tra un dispositivo e l’altro, dovendo passare attraverso un meccanismo di certificazione. Si tratta ad ogni modo di una vicenda ben lontana dalla parola fine: se si considera che l’altro filone relativo allo shopping non è ancora arrivato a conclusione definitiva, per questo ben più corposo è lecito pensare a una lunga battaglia, che impegnerà i due fronti per tutto l’anno corrente e oltre.