Apple, la Commissione Europea e l’Irlanda: cosa sta succedendo?

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Ci sono notizie che, di per sé, suscitano due stati d’animo: l’indignazione popolare o, al contrario, la strenua difesa dell’amata parte coinvolta. Entrambe le reazioni sono spesso dettate da come il giornalista riporta i fatti e da come i soggetti coinvolti difendono le proprie posizioni. Spesso, però, mancano gli strumenti per capire (o quanto meno, tentare di comprendere) cosa stia realmente accadendo. Sia chiaro: cercherò di essere il più asettico ed obiettivo possibile, ben circostanziando le mie considerazioni personali, ma credo sia giusto intervenire su quanto accaduto ieri.

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I fatti

Dopo una lunga indagine, la Commissione Europea (organo esecutivo, esattamente come i Governi nazionali) ha intimato ad Apple di versare nelle casse dell’erario irlandese la cifra di 13.000.000.000 di euro, o di un altro importo che dovrà essere determinato dal governo irlandese, per il periodo compreso fra il 2003 e il 2014. Infatti, la Commissione ha il potere di imporre agli Stati membri il pieno rispetto delle leggi comunitarie, tra le quali – ovviamente – figura il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che vieta espressamente (art. 107, par. 1) gli aiuti di Stato. Questi possono essere erogati sia come contributi statali (come, ad esempio, per la FIAT degli anni ’90) o come agevolazioni fiscali. La Commissione ha rilevato che fra Apple e l’Irlanda esista proprio un vero accordo fiscale volto a tutelare i profitti della società, agevolandone la posizione sul mercato. Infatti, si calcola che Apple abbia goduto di un regime di tassazione sin troppo agevolato, pagando importi annui compresi fra l’1% e il 0,005% dei profitti (ben lontani, ad esempio, dall’aliquota IRES italiana, pari al 27,5%, oltre al 22% di IVA e altre imposte come l’IRAP).

Ad ogni modo, la stessa Commissione ha dichiarato che gli accordi fiscali (tax ruling) sono perfettamente legittimi. Infatti, questi garantiscono la maggior trasparenza possibile per i rapporti intercorrenti fra le società e gli Stati in cui esse hanno la propria sede legale. È illegale, invece, stipulare accordi al solo fine di agevolare notevolmente un competitor sul mercato. Secondo la Commissione, le due società del gruppo (Apple Sales International e Apple Operations Europe) esistono ed effettivamente hanno diversi dipendenti, ma non hanno una organizzazione gerarchica strutturata. Questo, assieme agli altri elementi raccolti, è bastato alla Commissione per qualificare come “cartiere” le due società irlandesi (ossia due aziende produttrici di sola carta, senza che effettivamente abbiano un’utilità concreta per il gruppo Apple, se non quella di accentrare gli introiti in Irlanda), e, quindi, da ordinare all’Irlanda il calcolo e la riscossione delle imposte arretrate.

L’Irlanda

Innanzitutto, è bene precisare che l’Irlanda è uno degli Stati europei in cui è possibile accordarsi con l’erario sulla tassazione. Il principio, di per sé, non è da condannare, purché, ovviamente, non se ne abusi. Dai controlli effettuati dal fisco irlandese sembrerebbe che Apple abbia pagato correttamente imposte e tasse, rispettando gli accordi intercorsi con lo Stato. Pertanto, il governo ha deciso di ricorrere presso la Corte di Giustizia Europea contro la decisione della Commissione, proprio per non essere obbligato a ricalcolare le imposte sulla scorta delle osservazioni dell’organo comunitario. Paradossalmente, è come se lo Stato irlandese non volesse incamerare i 13 miliardi di euro, ritenendo gli accordi fiscali più che legittimi.

Apple

Innanzi a una vicenda del genere, Apple non poteva di certo rimanere impassibile, onde evitare un pessimo ritorno di immagine. In una lunga lettera pubblicata sul sito internet aziendale, Tim Cook ha spiegato perché all’epoca Steve Jobs scelse l’Irlanda e la cittadina di Cork per stabilire il proprio quartier generale europeo, motivando la scelta sotto il profilo etico, visto che la regione era sin troppo depressa e il loro intervento ha garantito la creazione di numerosi posti di lavoro, anche negli altri Stati comunitari (ad oggi l’indotto di Apple in Europa ha creato più di un milione e mezzo di posti di lavoro). Per quanto possa essere una scelta alta ed etica, essa è stata sicuramente dettata dalla normativa fiscale molto più favorevole rispetto agli altri Stati comunitari (esclusi Olanda, Belgio e Lussemburgo che sono sullo stesso piano).

Ad ogni buon conto, Cook ha sottolineato che ora Apple si trova nella situazione anomala di dover versare 13 miliardi di euro (pari al 6% della liquidità mondiale) ad uno Stato che non li vuole, visto che gli accordi fiscali sono stati sempre rispettati. Per di più, punta il dito contro la Commissione Europea, “colpevole” di voler imporre delle proprie regole fiscali (per di più retroattivamente), scavalcando la sovranità nazionale dei singoli Stati.

E quindi?

A ben guardare, il problema è ben più complicato di quel che appare dalla semplice lettura degli articoli (come questo) apparsi su internet. La tassazione delle multinazionali è veramente un argomento molto complesso, impossibile da affrontare in poco meno di mille parole. Peraltro, un grosso problema che assilla l’UE è proprio la mancanza di una normativa fiscale armonizzata (o, magari, uniforme) fra tutti gli Stati membri, ma la ragione di questo vuoto normativo è sin troppo evidente: nessuno Stato vuole rinunciare alla propria sovranità fiscale, che comporterebbe il dover uniformare le aliquote a quelle degli altri Paesi, rischiando di dover ridurre il proprio gettito erariale o, peggio, di allontanare gli operatori economici per aver applicato nuove aliquote più alte.

La combinazione fra la complessità della normativa fiscale delle multinazionali e l’assenza di armonizzazione dei sistemi erariali dei Paesi dell’Unione Europea, ha generato una sorta di zona grigia in cui le grosse società si muovono abbastanza agilmente, riuscendo a risparmiare diversi milioni di euro di tasse all’anno. Basti pensare che la stessa FIAT (pardon, FCA) ha la sede legale in Lussemburgo (il Paese che ha dato i natali proprio a Juncker, attuale presidente della Commissione Europea, nda) per usufruire di un sistema fiscale molto più agevolato rispetto a quello italiano.

Dunque, l’unica soluzione, per evitare simili problemi, sarebbe l’armonizzazione delle normative fiscali degli Stati membri, cosa che, purtroppo (o, forse, per fortuna) non avverrà che nel lungo periodo. Per ora la palla passa alla Corte di Giustizia Europea che dovrà pronunciarsi sul ricorso che l’Irlanda sta per presentare contro il parere della Commissione. Vi terremo aggiornati sugli sviluppi della vicenda.

Elio Franco

Editor - Sono un avvocato esperto in diritto delle nuove tecnologie, codice dell'amministrazione digitale, privacy e sicurezza informatica. Mi piace esplorare i nuovi rami del diritto che nascono in seguito all'evoluzione tecnologica. Patito di videogiochi, ne ho una pila ancora da finire per mancanza di tempo.

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