Smontato il Surface Studio di Microsoft: riparabilità media e un chip ARM nello schermo

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Pochi giorni fa ho sostituito la batteria di un MacBook Air 11″ 2010: esperienza semplice e completamente zero-stress. I computer Apple sono belli fuori ma anche dentro, cosa che deriva da uno dei tanti “pallini” di Jobs, il quale a sua volta lo aveva ereditato dal padre adottivo – che si rifiutava di usare legno di qualità scadente per gli schienali dei mobili con la giustificazione che tanto non lo avrebbe visto nessuno. Già in quel primo Mac Unibody era chiaro che ci si stesse indirizzando su macchine così compatte da risultare quasi blindate, ma ogni volta che smonto un Mac ne apprezzo la qualità dell’assemblaggio e dell’ingegnerizzazione. Molta della pulizia dipende dal fatto che la maggior parte dei componenti sono saldati, ma non è solo questo. Si vede che c’è stato qualcuno che ha pensato come rendere bella una cosa efficiente, due “aspetti” che possono sembrare paralleli ma in realtà coincidono nel design. Perfino la colorazione degli elementi viene scelta attentamente, cosa che potrebbe sembrare assurda se si pensa che Apple progetta i computer cercando chiaramente di evitare che sia l’utente ad aprirli. Difficilmente noto la stessa cura in altri prodotti che mi capita di smontare e devo dire che nel #ProgettoWin in corso ho selezionato il case anche basandomi sul suo aspetto interno (e spero di fare un buon lavoro con il cablaggio).

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Chi di certo ne ha viste di cotte e di crude è iFixit, sul cui bancone è passato ogni sorta di dispositivo elettronico. E non poteva mancare il Surface Studio, l’ultima fatica di Microsoft che sta ottenendo diversi consensi in questa fase preliminare. L’idea c’è, insomma, bisogna vedere poi il livello di ottimizzazione hardware/driver/software raggiunto, perché se fosse come quello che ho sperimentato sul Surface Pro 4 preferirei starne alla larga. Lo smontaggio, però, si è rivelata una cosa piuttosto semplice, partendo dalla base che contiene la maggior parte dell’hardware e consente di sostituire sia l’SSD (un comune M.2) che il disco meccanico SATA III da 2,5″. Questi sono combinati in soluzione ibrida e non sono dei campioni di velocità, ma almeno si avrà la possibilità di un upgrade futuro per migliorarli ed ottenere maggiore longevità.

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Il disco SSD M.2 nella base del Surface Studio. Immagine di iFixit

L’elemento che più di tutti ha incuriosito è la cerniera, che non ha provocato troppi grattacapi ai tecnici di iFixit. Il monitor da 28″ ha all’interno delle ali asimmetriche di metallo, che sembrano essere progettate al fine di bilanciare perfettamente il dispositivo e muovere la cerniera senza avvertire quasi nessun peso. All’interno non c’è solo il pannello, e gli speakera, ma anche una seconda scheda logica con diversi elementi, tra cui un chip ARM Cortex-M7 di Atmel (riquadrato in azzurro nell’immagine successiva). The Verge sostiene che sia lì per “aiutare” lo schermo PixelSense e potrebbe avere ragione. Non sappiamo esattamente in che termini, ma sicuramente la gestione dei 4,5K avrà richiesto qualche escamotage simile a quello adottato da Apple per il suo iMac 5K, così da superare i limiti della DisplayPort 1.2. Secondo altri, invece, potrebbe servire per la gestione avanzata dello schermo multi-touch.

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Alla fine di tutto lo smontaggio, iFixit ha assegnato un voto di riparabilità di 5/10. Tra i lati positivi la semplicità di apertura della base e della sostituzione dei dischi, nonché il fatto che si possa smontare e sostituire lo schermo senza dover smantellare tutto. I lati negativi, invece, sono l’impossibilità di sostituire RAM, CPU e GPU (che sono saldate) e il fatto che alcuni componenti integrati nello chassis del display, come pulsanti e speaker, possono essere difficoltosi da sostituire.

Maurizio Natali

Titolare e caporedattore di SaggiaMente, è "in rete" da quando ancora non c'era, con un BBS nell'era dei dinosauri informatici. Nel 2009 ha creato questo sito nel tempo libero, ma ora richiede più tempo di quanto ne abbia da offrire. Profondo sostenitore delle giornate di 36 ore, influencer di sé stesso e guru nella pausa pranzo, da anni si abbronza solo con la luce del monitor. Fotografo e videografo per lavoro e passione.

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